sábado, septiembre 25, 2010
miércoles, septiembre 22, 2010
Casanova di Fellini - sequenza tagliata
FEDERICO FELLINI'S CASANOVA - (DONALD SUTHERLAND) - CHEZ DUBOIS
Fellini's Casanova- The Dancing Doll
EL TOPO. Jodorowsky habla:
He was a very nice person. And he gave me the money to make The Holy Mountain, through Allen Klein and Apple. He didn't want anyone to know about it, he did it anonymously. He was a fantastic person, and he really liked what I was doing. One day with John Lennon, he invited me to take tea . . . but, later, when I was shooting Holy Mountain, a Rolling Stone journalist came to interview me on the set. And we were eating and he asked to me — not as part of the interview — "What do you think about the short films John Lennon made?" And I said, "Listen, I don't like that. To see three hundred asses walking, or a fly going from one part of the body to another for half an hour, that's not a movie for me." Bueno. They published that and John and Yoko Ono both got angry. And then I sent them flowers, I said, "I never wanted to suggest . . ." But that was it broken. Our history was broken there. I've never told this story, but I am sorry about it. But it was the journalist, so, what can you do? But, still: if you ask me do I like their short pictures, I say . . . No! They are awful! I don't like them. What can I do?
In Sintonia con Federico... assolutamente!
I'm reluctant to give interviews because I believe we should avoid them and I'm trying to hold to this sane decision. But in certain cases I end up by accepting, because there are friends who insist I do interviews. Then there's the curiosity of meeting somebody new. Also it's flattering; so out of an indecent vanity and a shameless desire to prattle about myself, I consent.
I've given a lot of interviews; so, I don't trust what I say. I repeat myself. I try to remember what I've already said and what I still haven't said. For fear of repeating something I've already said, I invent other things."
You told me in one of our conversations that you’ve always had a latent envy for anyone who expresses, even in a primitive way, a conviction, a creed, a dogma. You, who don’t want to take refuge in any rigid system of convictions or ideologies, what’s your "center," your "pivot"? The cinema?
"Do you mean "when do I feel at home"? "
Yes.
"You ask a question that’s not so simple to answer. I think my pivot point is finding myself in a nowhere in which I recognize myself. Said that way, it can seem like romantic complacency, shamelessly poetic.
No, no, I understand your answer very well. I’ve written about the nowhere. It’s a perception I know well precisely because I believe that creative people are acquainted with it. That is, people who have refused the comfort of certainties, of dogmatic, ideological constructions.
A less esoteric and less presumptuous center is my work, when I’m seized, when I have an identity, am caught up by what I’m doing. As in driving a nail, putting up a wall on a set, putting a wig on an actress’s head, seeing that the makeup is just right; when I’m on the go, obsessed in filming in the midst of a group of people who look at me with the respect due to age and, maybe, also with a little worry and amusement.
I lend my body, my common sense, or talent to something that is a stream, a stream that invites me, obliges me, forces me to personify myself in so many things, persons, thoughts, attitudes. And there, just at the moment in which I’m not there — since I’m in so many places taken up by so many details — is, I believe, my pivot point.
I believe that for me this is happiness — to lose one’s memory, to forget the self, the part you call yourself, which is really just a superstructure. This is the part you forget in order to be inhabited by an energy that borrows your body and your nervous system. "
viernes, septiembre 17, 2010
martes, septiembre 14, 2010
Julian Lennon - Saltwater - In Concert 1993
sábado, septiembre 11, 2010
martes, septiembre 07, 2010
BP OIL etc.
lunes, septiembre 06, 2010
domingo, septiembre 05, 2010
'Il Manifesto' (Diario Italiano), Nota por Luca Gricinella
LUCA VIVE: INTERVISTA AD ANDREA PRODAN
La recente e coinvolgente chiacchierata con Alberto Prunetti (ossia il post precedente a questo, vedi qui) è l’occasione giusta per mettere finalmente on line la mia intervista ad Andrea Prodan, fratello del mito del rock argentino Luca Prodan (1953 – 1987), realizzata per Alias e pubblicata appunto sull’inserto de Il Manifesto a inizio 2008. Ho conosciuto parti della storia di Luca Prodan ogni volta che mi presentavo col mio nome a un autoctono durante il mio primo viaggio in Argentina nel Maggio 2004. Grazie al fratello Andrea, contattato grazie a una catena partita da Alberto Campo e passata per Guido Chiesa e Andrea Bruschi, l’ho focalizzata meglio. Qui di seguito ecco l’intervista di due anni e mezzo fa che poi ha avuto un seguito con un radio-documentario realizzato con Paolo Maggioni per Radio Popolare di Milano.

Andrea e Luca Prodan durante uno show al Café Einstein di Buenos Aires (photo courtesy of Andrea Prodan)
Il vero e proprio mito del rock argentino? È italiano. Si tratta di Luca Prodan, nato a Roma nel 1953, morto a Buenos Aires nel 1987 a causa di un infarto massivo riconducibile all’abuso di alcol. La sua popolarità in Argentina è impressionante, trasversale, tanto che nel 2006 la Segreteria Culturale Nazionale e le Poste Argentine hanno dato alle stampe un francobollo in suo omaggio (“all’irriverente cantante italiano”). Col gruppo di cui era leader, i Sumo, Luca ha introdotto sul finire della dittatura i suoni (post) punk, new wave e reggae cantando sia in castigliano ma, soprattutto, in inglese. Molto è dovuto a un soggiorno lungo a Londra, dove era finito per scappare alle imposizioni di un rinomato college scozzese dove era stato spedito dalla sua famiglia. Qui conosce un ragazzo di origine argentina, Timmy McKern, un incontro fondamentale per la sua vita, ma da qui iniziano anche le sue disavventure: la prima fuga a Londra coincide non solo con la conoscenza dei suoni e delle culture che dominavano gli anni Settanta, ma anche con quella dell’eroina. A questo si sommano alcune grane burocratiche: in Italia è dichiarato disertore, incarcerato tre mesi e poi spedito in caserma, da dove scappa proprio per tornare a Londra; tornerà nella sua città natale solo dopo tre anni per regolarizzare la sua posizione. Ma il suicidio di sua sorella e il suo seguente coma epatico per la sempre più forte dipendenza dall’eroina lo spingono, una volta rimessosi, ad accettare un invito di McKern (stabilitosi nelle campagne nei pressi di Cordoba): è così che nel 1981 Luca Prodan vola a Buenos Aires. E questo è il prologo del mito.
Abbiamo contattato il fratello minore di Luca, Andrea – musicista e attore che tra gli altri ha lavorato con Peter Greenaway, Gianni Amelio e Guido Chiesa – per farci raccontare meglio questa storia ignorata dalla nostre parti. Il destino vuole che lo stesso Andrea ora viva in Argentina.
Anche te, come tuo fratello, in Argentina: cosa ti ci ha portato?
Il mio primo viaggio in Argentina avviene durante la dittatura, dopo la vicenda Malvinas/Falkland. È così che ho visto i Sumo al Café Einstein (mitico club ‘under’), per poi seguirli in tour nella provincia di Entre Rios. Mi sono trovato davanti un grande gruppo, anche per i canoni del miglior rock europeo. Reggae, Joy Division, Wire e Hammil in uno strano misto; Luca scatenato, divertente, intelligente e carismatico: rinato, insomma, dopo le disavventure in Italia e Inghilterra. Nel 1987 poi, mentre lavoravo su un film di Gianni Amelio, mio fratello è morto; allora sono tornato a Buenos Aires, dove iniziò il mito… sono stati anni molto tristi per me. Passiamo al 1995, quando a Bologna ho iniziato a lavorare su un disco puramente vocale che una strana coincidenza mi ha portato a registrare a Buenos Aires. L’album, Viva voce, è stato inserito da Peter Gabriel nei suoi favoriti dell’anno e in Argentina ha vinto il premio A.C.E. (assegnato dalla critica specializzata). Mi sentivo tranquillo perché era ben diverso dai Sumo: il fantasma di Luca era (ed è) gigante qui e cercare di rivaleggiare sarebbe stata una follia! La vita comunque è veramente strana: poco dopo ho avuto un figlio con una donna argentina, ho cantato nello stadio del River Plate proprio una canzone dei Sumo, No tan distintos… insomma lo sforzo di tornare in Italia si faceva sempre più sentire. L’energia creativa e precaria dell’Argentina mi alimentava, malgrado (in un primo momento) la presenza continua di mio fratello; qui sui muri ci sono dappertutto scritte ‘Luca Vive’. Nel 2001 insomma ho deciso di trasferirmi a Buenos Aires: sono arrivato il giorno in cui il Presidente De La Rua scappava dalla Casa Rosada in elicottero! Nonostante il momento critico, il Paese viveva un fermento popolare veramente emozionante ed entusiasmante. Ho partecipato ad assemblee popolari, cantando e raccontando le mie esperienze cinematografiche. La gente generosa, vivace, coraggiosa. Il paese economicamente a pezzi ma eticamente sveglio e vibrante. Ed eccomi qua: quarantacinque anni e due figli da due donne argentine.
Luca si sentiva italiano fino a un certo punto, o sbaglio?
Luca, come me, aveva un rapporto particolare con l’Italia giacché siamo veramente bilingue e “biculturali”. Questo fa sì che ti trovi a difendere un paese quando ti trovi nell’altro e viceversa! Ti mancano cose di uno quando sei nell’altro ecc… Luca aveva una relazione viscerale con l’Italia. La decisione di farlo internare in un collegio in Scozia all’età di dieci anni e di tenerlo lì fino alla sua fuga ai diciassette è parte fondamentale della sua crescita e della sua successiva vita e personalità. Lui voleva solo tornare in Italia, pescare, mangiare, fare casino a Piazza Navona e a Campo de’ Fiori. Noi due piangevamo di notte in collegio ascoltando i primi dischi di Battisti. La sua natura “ribelle” è nata da questa esclusione, questo esilio forzato, che io ho meglio digerito. L’eccentricità degli Inglesi, la fede nella musica, nelle persone come parte di una società ci piacevano molto; la loro ironia e il loro ‘humour’. Le istituzioni italiane invece a Luca facevano schifo; l’ingiustizia sociale italiana, l’ipocrisia dello Stato: sei mesi per detenzione di hashish, sei per diserzione, e molte altre cose. Poi però interrompeva gli show per cantare canzoni napoletane e stornelli romani: esilarante per le gabbie sonore che di solito il rock crea.
E poi l’Argentina, dove durante la dittatura i Sumo spingevano suoni “nuovi”, non proprio allineati. Come erano visti dal sistema?
I militari erano già in decadenza e la gran parte dei “sospetti” erano già stati liquidati (trentamila). Ciononostante la sfrontataggine surreale dei Sumo provocava paura in alcuni e malintesi in molti. Luca non è mai caduto nella facile trappola dei “cliché” politici. È stato pugnalato da poliziotti in borghese della dittatura nei camerini di un club (gli hanno tagliato i tendini della mano sinistra; per questo i Sumo hanno cercato un nuovo chitarrista trovandolo in Riccardo Mollo), e più volte lui e la sua ragazza hanno ricevuto minacce, anche da membri del pubblico che odiavano la lingua inglese e tutto quello che il colonialismo apparentemente toccava in Argentina. Ma ironicamente i Sumo sono forse la band più argentina che ci sia! Insomma Luca ha scelto la scalata più ripida, più strana ma a lui più congeniale e spontanea. Non a caso l’assoluta trasparenza e pazzia di questa band è tuttora oggetto di fascino.
Qual è a tuo avviso il miglior album dei Sumo?
Il primo, Corpiños en la Madrugada (1983), e l’ultimo, After Chabon (1987).
E c’è un brano più significativo di altri (anche in relazione alla vita di Luca)?
Running Away, una canzone tratta da Time, Fate, Love, un disco postumo, solista… però è ingiusto citare solo questa giacché la forza di Luca stava nella sua capacità di “spogliarsi” in pubblico e affrontare le sue debolezze e forze senza fumose allegorie.
Dallo scioglimento dei Sumo si sono formati due gruppi: c’è in loro qualcosa che segue fedelmente l’esperienza “capitanata” da tuo fratello?
Se Los Divididos mantengono la forza dei Sumo e anche certo gusto per il paradosso e il ridicolo, Las Pelotas lo stile indipendente, ‘amateur’ e in qualche modo caotico… ma in quest’ultimo caso direi mantenevano, visto che hanno perso queste cose. Del resto le due ‘bandas’ hanno ormai patti troppo stretti con le multinazionali per essere prese sul serio come eredi dei Sumo. Sumo era avanguardia e coraggio; ma questo lo sanno anche loro, gli stessi integranti delle due ‘offshoots’. Forse Romapagana (vedi anche il myspace, qui), il mio progetto musicale attuale, propone quanto meno lo spirito della prima formazione dei Sumo, ma suona veramente presuntuoso sostenerlo e da fuori, credo, anche patetico.
E libri, video, pellicole che hanno saputo rendere al meglio lo spirito di Luca?
L’unico film che s’avvicina in modo veritiero a Luca e alla sua storia è il documentario Luca di Rodrigo Espina e tuttora il libro più completo è Luca. Un ciego guiando a los ciegos di Carlos Polimeni, un giornalista di queste parti.
viernes, septiembre 03, 2010
The Pretenders.....Talk Of The Town.
como una ola fresca sobre nuestras cansadas playas auditivas.
Un trabajo que hice para ECPAT, la Asociacion Internacional Contra la Prostitucion Infantil
un trabajo comisionado por:
http://www.ecpat.net/EI/index.asp
Arizona Governor Jan Brewer at NRA's Phoenix Convention
(and who's her hairdresser?)
OMG this is so embarrassing ....Save us from Jan Brewer!
don't - hurlingham reggae band
jueves, septiembre 02, 2010
miércoles, septiembre 01, 2010
lunes, agosto 30, 2010
El Maestro de Vida

El I Ching como herramienta de Trabajo personal
El I Ching o "Clásico de los Cambios" es un libro vivo. Es uno de los libros más viejos de la cultura china, uno de los cinco Clásicos de Confucio, libros pilares de esta cultura. Sus distintas partes tienen entre 2,000 y 4,000 años de antigüedad. Es un libro a la vez oracular y moral, a la vez filosófico y cosmogónico. Tal vez, como sugiere Jung, tirar el I Ching sea una fora de conversar con uno mismo. Tal vez se trate de una conversación con nuestros propios lados, nuestro subconsciente colectivo y sus arquetipos. Pero creo que si lo leemos con profundidad, inocencia y entrega, puede haber algo más.El I Ching no sabe el futuro, o si lo conoce lo conoce sólo como potencialidad múltiple. Pero con tantos años y manos sabias que lo tejieron, este libro oracular suele ver más lejos que nosotros. Vé las líneas. Vé el presente, o qué nos depara si seguímos en una dirección dada.Lo que hace el I Ching es proponer una mirada a la vez aguda y abarcadora sobre lo que nos está pasando. Esta mirada es como un puente, si logramos integrarla recibimos un empujón adicional para que el camino hacia adelante sea menos repetitivo y mecánico y se vuelva más directo y profundo. Para que sea un camino con más corazón.
domingo, agosto 29, 2010
sábado, agosto 28, 2010
Algo sobre Ray Phiri

In 1985 Paul Simon asked Ray along with Ladysmith Black Mambazo to join his Graceland project, which was successful but also helped the South Africans to make names for themselves abroad. Ray was to collaborate with Paul Simon again on Simon’s Rhythm of the Saints album, which saw him perform on stages such as Central Park and Madison Square Garden as well as appearing on top television shows in the USA.
He was born to Malawian immigrant worker and South African guitarist nicknamed "Just Now" Phiri.
viernes, agosto 27, 2010
Paul Simon: Graceland, concert Zimbabwe / South Africa
Paul Simon & Miriam Makeba
jueves, agosto 26, 2010
miércoles, agosto 25, 2010
martes, agosto 24, 2010
lunes, agosto 23, 2010
ETERNIT el killer que se vende en TODA Argentina
Se han sucedido los recuerdos luctuosos, no en vano hablamos con asociaciones de victimas, pero se ha hecho especial mención de Romana Blasotti, una mujer de 82 años, que hace veinticinco inició la lucha contra Eternit, empresa del amianto en Italia, después de ver desaparecer a su marido, a su prima, a un sobrino, a su cuñada y, finalmente, a su hija, todas ellas víctimas directas o indirectas del polvo mortal. Romana ha podido tener la satisfacción de ver iniciado el proceso penal contra los presuntos homicidas, y cuenta que a pesar del dolor afincado en su estómago que no cesa, tiene aún ganas de vivir y de jugar con sus nietos en un alarde de esperanza. Esta mujer, Romana Blasotti, es todo un símbolo de coraje en toda la región del Piamonte italiano y especialmente en Casale Monferrato, el pueblo en el que ha estado instalada la fábrica de Schmidheiny hasta el año 1986, y que ha regado de muertos su suelo, entre trabajadores, familiares y vecinos, por lo cual se le juzga. Una gran parte de esos dos mil, cuyos familiares se han personado en el juicio.
Se ha concluido el encuentro mundial de víctimas y luchadores contra el amianto con un nudo en la garganta pero a la vez con la esperanza de que empieza a verse luz en esta fatídica historia que comenzó a principios del siglo veinte.
Lo que ocurra en Turín servirá para todo el mundo.
Los afectados, que somos todos, hemos entonado para terminar la consigna de "justicia a Eternit"
domingo, agosto 22, 2010
The End of the World
Imagine Rx2008
People Have the Power (patti smith)
Magazine - Burst (live)
sábado, agosto 21, 2010
Olen Cesari @ PrimoMaggio 2010 HQ
viernes, agosto 20, 2010
jueves, agosto 19, 2010
miércoles, agosto 18, 2010
Patti Smith People Have The Power Live 31.07.2010
Visita Patti Smith a Buenos Aires, hace 4 años
“Jesús murió por los pecados de alguien, pero no por los míos.” Vaya forma de comenzar un disco, y más si el año era 1975. Con una sola frase, Patti Smith plantaba bandera y mostraba su juego: la espiritualidad y el sexo, la ambición artística, la poesía (Rimbaud, pero también Dylan), el aura experimental del free jazz, la tradición rockera (la canción era un cover de “Gloria”, de Van Morrison) y el sonido áspero de Nueva York (The Velvet Underground) se aunaban en ese álbum, Horses, uno de los mejores debuts de la historia. Como ella ya había brillado en el campo de la poesía, a sus recitales iban Allen Ginsberg, su ex Robert Ma-pplethorpe, Andy Warhol y William Burroughs. Con sus amigos de Television, Patti se había instalado en un hueco del Bowery llamado CBGB, en donde pronto comenzarían a brillar otros colegas como los Ramones, Blondie y Talking Heads: por su rol de pionera se la conoce como “la madrina del punk”. Pero tal vez todas las referencias estén de más cuando, como sucederá este viernes en el Festival BUE, se asiste a un concierto de esta señora que lleva sus canas con orgullo: sobre el escenario, Patti se transforma en una sacerdotisa que conjura espíritus con la electricidad del rock and roll.
El 30 de diciembre, Patricia Lee Smith cumplirá 60 años, pero se ríe y juega con las palabras cuando Página/12 le pregunta si el número redondo le generó la necesidad de hacer un balance de su vida: “Mantenerse en balance es un trabajo que hay que hacer cada día. El balance es una búsqueda continua de saber quiénes somos. Para mí, llegar a los 60 significa que hay cosas que tengo que atender y que tengo que cuidarme; también es un momento muy excitante en términos de que estoy estimulada mentalmente, de que es un momento de estudio, de aprender nuevas cosas y de hacer nuevos viajes. Aquí estoy: voy a cumplir 60 y estoy yendo para la Argentina para actuar por primera vez. Eso es muy excitante, y demuestra que las posibilidades siempre están abriéndose”.
–¿Qué expectativas le genera el viaje?
–Espero que las personas sean cálidas y curiosas. Quiero aprender de ellas, saber de primera mano cómo se sienten con su mundo, con su situación política, con el medio ambiente… Quiero intercambiar ideas, divertirme y, durante el show, hacer las canciones que tengan más significado para la gente. No voy sólo a tocar, sino también a aprender. Quiero tener discernimiento de qué piensa la gente, de qué cosas le molestan y le excitan.
–Usted dijo en el pasado: “Me hice rockera por razones políticas. Al principio no éramos buenos, pero nos sentíamos como despertadores humanos. ¡Despierten! ¡Despierten!”. ¿Fue el movimiento punk la respuesta a esa llamada?
–Fue una de las respuestas. Pero en términos de ese objetivo, mi banda y yo todavía nos sentimos igual: hay muchas cosas por las que despertar a la gente. En nuestro país, las políticas de la administración Bush son terribles, la invasión de Irak fue un error. O lo que pasa en la Bahía de Guantánamo, la destrucción del medio ambiente… Todavía hay razones para usar el rock’n’roll como una voz social y política, para despertar a la gente sobre muchas cosas que suceden en nuestro mundo. Conservo la misma idea de cómo el rock and roll puede inspirar a la gente.
–Sus canciones y también sus respuestas en entrevistas se han tornado muy políticas desde que George W. Bush es presidente. ¿Es un signo de los tiempos?
–Sí, es un signo de los tiempos, por el hecho de que tengo hijos y gente por la que me preocupo. No es sólo mi mundo, sino también el de ellos. Y también porque estos tiempos son más y más materialistas, nuestro mundo está manejado por gobiernos corruptos y corporaciones, y pienso que tenemos que educar a nuestra gente sobre el sida, la superpoblación, la destrucción del medio ambiente… Se está desarrollando un movimiento global anti-guerra, pero hay mucho trabajo por hacer. Y es muy difícil, pero también excitante: no vivimos una parte amable de la historia. Este es un momento muy complejo de la historia de la humanidad en el que debemos interactuar.
–A menudo, cuando una estrella de rock habla sobre estos temas recibe críticas. A Bono, por ejemplo, lo acusan de mesianismo.
–No puedo hablar sobre eso, pero ciertamente no me siento una mesías. Soy una ciudadana y mis preocupaciones son comunes. No soy una persona política, sino una artista, pero levanto la voz porque, como ser humano y como madre, estoy preocupada por nuestro mundo. No es porque piense que tengo un lugar especial en el mundo, sino porque creo que todos los seres humanos deberían hacerlo: levantar la voz no es cosa sólo de algunos, sino un derecho humano y un deber. No me interesa lo que la gente diga, ni tengo ninguna ambición más allá de hacer conocer mis preocupaciones.
–¿Cree que el arte puede salvar al mundo?
–No (se ríe). Creo que el arte puede inspirar a la gente y ayudarla a articular las cosas que están pasando en nuestro mundo. Puede ayudar a unir a la gente y a despertarla. Pero sólo la gente puede provocar cambios. Sólo la gente unida puede salvar al mundo. El arte, la música, el rock’n’roll, sólo pueden proveer la voz cultural por la que respondemos. El Guernica no puede parar la guerra, pero puede hacer que la gente piense sobre los horrores de la guerra.
–En los últimos tiempos, usted compuso dos canciones muy políticas, “Without Chains” y “Qana” (esta última puede bajarse en www.pattismith.net).
–Esas dos pequeñas canciones las compuse como respuesta a cosas que están sucediendo en nuestro mundo. “Qana” es la respuesta al bombardeo del Líbano, que creo completamente equivocado e inexcusable. Murieron muchos ciudadanos, entre los cuales había muchos niños. Y la situación en la Bahía de Guantánamo es inaceptable, por eso escribí “Without Chains”. Son modos de expresar los sentimientos de cada uno sobre lo que está sucediendo. Neil Young hizo eso con “Ohio”, Bob Dylan lo hizo con “The Lonesome Death of Hattie Carrol”. Creo que es importante responder a las cosas que suceden en el mundo de varias maneras: a través del activismo, de la música… Cada forma en la que respondamos despertará a más gente.
–A pesar de que continúa componiendo, su próximo disco será de covers.
–Sí, estamos trabajando en eso, con canciones que me han inspirado a través del tiempo: de Bob Dylan, Jimi Hendrix, The Byrds, Je-fferson Airplane, Gene Clark, Nirvana… Saldrá el año próximo, porque todavía no lo hemos terminado.
Si se lo piensa bien, no es tan extraño que repase esas canciones. Sucede que Patti Smith siempre creyó en la importancia de los héroes, rockeros o no. Por eso se enamoró de Rimbaud y sus compañeras de fábrica la odiaban por excéntrica (ver la canción-recitado “Piss Factory”), por eso el lado B de su primer single fue un cover de “Hey Joe” de Hendrix, por eso le dedicó su primer libro de poesía a Marianne Faithfull, por eso vivía hablando de Dylan y los Rolling Stones… Pero ella misma, la flacucha de Nueva Jersey a la que no dejaban entrar al Max Kansas City donde se reunía lo más top de Nueva York, se convertiría en heroína. Primero para la generación punk, que la vio entrar en combustión sobre los escenarios, y luego para almas gemelas como Morrissey, Thurston Moore (Sonic Youth) o Michael Stipe (R.E.M.), quien decidió dedicarse a la música el día en que se publicó Horses. El aura de Smith es tan poderosa que, si ella no hubiera existido, sería difícil pensar en PJ Harvey, Tori Amos o Courtney Love.
La actitud punk que rescata el cineasta Don Letts en su documental estrenado este año en el Bafici (y titulado precisamente Punk: Attitude) permanece viva en Patti Smith, más allá de los vaivenes de su vida y su carrera. Tiene sentido, entonces, que haya sido la encargada de darle la despedida al mítico CBGB, que cerró sus puertas el 15 de este mes. “Fue una noche muy emocional”, recuerda. “Hacia el final hicimos una versión de ‘Gloria’ a la que le agregamos el ‘Hey Ho Let’s Go’ como forma de saludar a los Ramones. Hicimos muchas canciones de gente que tocó en el CBGB: Television, los Dead Boys, Blondie… Tratamos de recordar a todos los que tocaron ahí. Intentamos que fuera un buen adiós y que sirviera para que las futuras generaciones abran sus propios lugares donde sucedan cosas.”
–¿Sabía que los Ramones fueron masivos en la Argentina?
–Sí, sí. Y estoy segura de que cuando toquemos allá haremos algo para rendir homenaje a los Ramones. Haremos muchas canciones viejas y también cosas que sé que le gustan a la gente, como temas de los Ramones y los Rolling Stones.
–Fue interesante que durante el concierto dijera que el CBGB no era un templo.
–Claro, porque creo que es importante que la gente joven no se sienta intimidada pensando que el CBGB fue el lugar más cool de todos los tiempos. Era bárbaro porque era nuestro, pero eso es lo que lo hacía bárbaro. Las nuevas generaciones tendrán sus propios lugares para hacerlos bárbaros. De eso siempre se trató el CBGB: de apoyar nuevas ideas, de darle esperanzas a una nueva generación y de inspirarla a crear su propia situación.
–Durante el concierto, ¿recordó momentos vividos allí? Como ver por primera vez a Television, por ejemplo.
–Oh, sí, absolutamente. Quería que fuera una noche positiva y con buen espíritu, pero tengo que decir que en ciertos momentos no pude evitar llorar un poquito. Es que todos esos recuerdos son muy fuertes: ver a Television en 1974, tocar allí con ellos, trabajar con Tom Verlaine, y todas las cosas que hicimos cuando éramos jóvenes para construir el CBGB. Y, por supuesto, toda la gente que trabajó allí, como los Ramones. Varios de ellos han muerto, lo mismo que mi pianista Richard Sohl, así que los saludamos a todos. Obviamente que hubo momentos un poco tristes, pero tratamos de mantenerlo positivo. La tristeza no siempre es negativa; también hay cierta belleza en la tristeza












.bmp)

