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'Il Manifesto' (Diario Italiano), Nota por Luca Gricinella
LUCA VIVE: INTERVISTA AD ANDREA PRODAN
La recente e coinvolgente chiacchierata con Alberto Prunetti (ossia il post precedente a questo, vedi qui) è l’occasione giusta per mettere finalmente on line la mia intervista ad Andrea Prodan, fratello del mito del rock argentino Luca Prodan (1953 – 1987), realizzata per Alias e pubblicata appunto sull’inserto de Il Manifesto a inizio 2008. Ho conosciuto parti della storia di Luca Prodan ogni volta che mi presentavo col mio nome a un autoctono durante il mio primo viaggio in Argentina nel Maggio 2004. Grazie al fratello Andrea, contattato grazie a una catena partita da Alberto Campo e passata per Guido Chiesa e Andrea Bruschi, l’ho focalizzata meglio. Qui di seguito ecco l’intervista di due anni e mezzo fa che poi ha avuto un seguito con un radio-documentario realizzato con Paolo Maggioni per Radio Popolare di Milano.
Il vero e proprio mito del rock argentino? È italiano. Si tratta di Luca Prodan, nato a Roma nel 1953, morto a Buenos Aires nel 1987 a causa di un infarto massivo riconducibile all’abuso di alcol. La sua popolarità in Argentina è impressionante, trasversale, tanto che nel 2006 la Segreteria Culturale Nazionale e le Poste Argentine hanno dato alle stampe un francobollo in suo omaggio (“all’irriverente cantante italiano”). Col gruppo di cui era leader, i Sumo, Luca ha introdotto sul finire della dittatura i suoni (post) punk, new wave e reggae cantando sia in castigliano ma, soprattutto, in inglese. Molto è dovuto a un soggiorno lungo a Londra, dove era finito per scappare alle imposizioni di un rinomato college scozzese dove era stato spedito dalla sua famiglia. Qui conosce un ragazzo di origine argentina, Timmy McKern, un incontro fondamentale per la sua vita, ma da qui iniziano anche le sue disavventure: la prima fuga a Londra coincide non solo con la conoscenza dei suoni e delle culture che dominavano gli anni Settanta, ma anche con quella dell’eroina. A questo si sommano alcune grane burocratiche: in Italia è dichiarato disertore, incarcerato tre mesi e poi spedito in caserma, da dove scappa proprio per tornare a Londra; tornerà nella sua città natale solo dopo tre anni per regolarizzare la sua posizione. Ma il suicidio di sua sorella e il suo seguente coma epatico per la sempre più forte dipendenza dall’eroina lo spingono, una volta rimessosi, ad accettare un invito di McKern (stabilitosi nelle campagne nei pressi di Cordoba): è così che nel 1981 Luca Prodan vola a Buenos Aires. E questo è il prologo del mito.
Abbiamo contattato il fratello minore di Luca, Andrea – musicista e attore che tra gli altri ha lavorato con Peter Greenaway, Gianni Amelio e Guido Chiesa – per farci raccontare meglio questa storia ignorata dalla nostre parti. Il destino vuole che lo stesso Andrea ora viva in Argentina.
Anche te, come tuo fratello, in Argentina: cosa ti ci ha portato?
Il mio primo viaggio in Argentina avviene durante la dittatura, dopo la vicenda Malvinas/Falkland. È così che ho visto i Sumo al Café Einstein (mitico club ‘under’), per poi seguirli in tour nella provincia di Entre Rios. Mi sono trovato davanti un grande gruppo, anche per i canoni del miglior rock europeo. Reggae, Joy Division, Wire e Hammil in uno strano misto; Luca scatenato, divertente, intelligente e carismatico: rinato, insomma, dopo le disavventure in Italia e Inghilterra. Nel 1987 poi, mentre lavoravo su un film di Gianni Amelio, mio fratello è morto; allora sono tornato a Buenos Aires, dove iniziò il mito… sono stati anni molto tristi per me. Passiamo al 1995, quando a Bologna ho iniziato a lavorare su un disco puramente vocale che una strana coincidenza mi ha portato a registrare a Buenos Aires. L’album, Viva voce, è stato inserito da Peter Gabriel nei suoi favoriti dell’anno e in Argentina ha vinto il premio A.C.E. (assegnato dalla critica specializzata). Mi sentivo tranquillo perché era ben diverso dai Sumo: il fantasma di Luca era (ed è) gigante qui e cercare di rivaleggiare sarebbe stata una follia! La vita comunque è veramente strana: poco dopo ho avuto un figlio con una donna argentina, ho cantato nello stadio del River Plate proprio una canzone dei Sumo, No tan distintos… insomma lo sforzo di tornare in Italia si faceva sempre più sentire. L’energia creativa e precaria dell’Argentina mi alimentava, malgrado (in un primo momento) la presenza continua di mio fratello; qui sui muri ci sono dappertutto scritte ‘Luca Vive’. Nel 2001 insomma ho deciso di trasferirmi a Buenos Aires: sono arrivato il giorno in cui il Presidente De La Rua scappava dalla Casa Rosada in elicottero! Nonostante il momento critico, il Paese viveva un fermento popolare veramente emozionante ed entusiasmante. Ho partecipato ad assemblee popolari, cantando e raccontando le mie esperienze cinematografiche. La gente generosa, vivace, coraggiosa. Il paese economicamente a pezzi ma eticamente sveglio e vibrante. Ed eccomi qua: quarantacinque anni e due figli da due donne argentine.
Luca si sentiva italiano fino a un certo punto, o sbaglio?
Luca, come me, aveva un rapporto particolare con l’Italia giacché siamo veramente bilingue e “biculturali”. Questo fa sì che ti trovi a difendere un paese quando ti trovi nell’altro e viceversa! Ti mancano cose di uno quando sei nell’altro ecc… Luca aveva una relazione viscerale con l’Italia. La decisione di farlo internare in un collegio in Scozia all’età di dieci anni e di tenerlo lì fino alla sua fuga ai diciassette è parte fondamentale della sua crescita e della sua successiva vita e personalità. Lui voleva solo tornare in Italia, pescare, mangiare, fare casino a Piazza Navona e a Campo de’ Fiori. Noi due piangevamo di notte in collegio ascoltando i primi dischi di Battisti. La sua natura “ribelle” è nata da questa esclusione, questo esilio forzato, che io ho meglio digerito. L’eccentricità degli Inglesi, la fede nella musica, nelle persone come parte di una società ci piacevano molto; la loro ironia e il loro ‘humour’. Le istituzioni italiane invece a Luca facevano schifo; l’ingiustizia sociale italiana, l’ipocrisia dello Stato: sei mesi per detenzione di hashish, sei per diserzione, e molte altre cose. Poi però interrompeva gli show per cantare canzoni napoletane e stornelli romani: esilarante per le gabbie sonore che di solito il rock crea.
E poi l’Argentina, dove durante la dittatura i Sumo spingevano suoni “nuovi”, non proprio allineati. Come erano visti dal sistema?
I militari erano già in decadenza e la gran parte dei “sospetti” erano già stati liquidati (trentamila). Ciononostante la sfrontataggine surreale dei Sumo provocava paura in alcuni e malintesi in molti. Luca non è mai caduto nella facile trappola dei “cliché” politici. È stato pugnalato da poliziotti in borghese della dittatura nei camerini di un club (gli hanno tagliato i tendini della mano sinistra; per questo i Sumo hanno cercato un nuovo chitarrista trovandolo in Riccardo Mollo), e più volte lui e la sua ragazza hanno ricevuto minacce, anche da membri del pubblico che odiavano la lingua inglese e tutto quello che il colonialismo apparentemente toccava in Argentina. Ma ironicamente i Sumo sono forse la band più argentina che ci sia! Insomma Luca ha scelto la scalata più ripida, più strana ma a lui più congeniale e spontanea. Non a caso l’assoluta trasparenza e pazzia di questa band è tuttora oggetto di fascino.
Qual è a tuo avviso il miglior album dei Sumo?
Il primo, Corpiños en la Madrugada (1983), e l’ultimo, After Chabon (1987).
E c’è un brano più significativo di altri (anche in relazione alla vita di Luca)?
Running Away, una canzone tratta da Time, Fate, Love, un disco postumo, solista… però è ingiusto citare solo questa giacché la forza di Luca stava nella sua capacità di “spogliarsi” in pubblico e affrontare le sue debolezze e forze senza fumose allegorie.
Dallo scioglimento dei Sumo si sono formati due gruppi: c’è in loro qualcosa che segue fedelmente l’esperienza “capitanata” da tuo fratello?
Se Los Divididos mantengono la forza dei Sumo e anche certo gusto per il paradosso e il ridicolo, Las Pelotas lo stile indipendente, ‘amateur’ e in qualche modo caotico… ma in quest’ultimo caso direi mantenevano, visto che hanno perso queste cose. Del resto le due ‘bandas’ hanno ormai patti troppo stretti con le multinazionali per essere prese sul serio come eredi dei Sumo. Sumo era avanguardia e coraggio; ma questo lo sanno anche loro, gli stessi integranti delle due ‘offshoots’. Forse Romapagana (vedi anche il myspace, qui), il mio progetto musicale attuale, propone quanto meno lo spirito della prima formazione dei Sumo, ma suona veramente presuntuoso sostenerlo e da fuori, credo, anche patetico.
E libri, video, pellicole che hanno saputo rendere al meglio lo spirito di Luca?
L’unico film che s’avvicina in modo veritiero a Luca e alla sua storia è il documentario Luca di Rodrigo Espina e tuttora il libro più completo è Luca. Un ciego guiando a los ciegos di Carlos Polimeni, un giornalista di queste parti.